GARIWO – Carta delle responsabilità 2017
Nei passaggi più complicati e drammatici della storia dell’umanità ci si è spesso chiesti che cosa significhi essere responsabili nel proprio tempo.
Alcuni uomini, molte volte in solitudine, si sono fatti carico di quanti erano esclusi e perseguitati a causa di leggi ingiuste e si sono assunti l’onere di difendere la dignità umana calpestata.
I protagonisti di queste azioni non solo hanno cercato di porre un argine ai disastri della cattiva politica, ma hanno lasciato delle tracce che sono poi servite alla ricostruzione di un mondo lacerato. Senza l’iniziativa degli uomini giusti non ci sarebbe stata la sconfitta del nazismo e del totalitarismo sovietico e la nascita della comunità europea.
Questi individui ci hanno insegnato che l’agire morale, anche se spesso sembra dare scarsi risultati, con il tempo può provocare un effetto a catena e un movimento di emulazione. Ciò che sembrava impossibile e opera soltanto di uomini considerati dai più come visionari, ingenui e solitari, riesce a influenzare il comportamento degli altri uomini e persino a modificare la politica degli Stati e dei governi.
Anche oggi chi agisce con responsabilità e sente la voce del proprio cuore, della ragione e della coscienza, può creare degli effetti insperati in un mondo complicato che sembra andare in una cattiva direzione.
Improvvisamente ci siamo accorti che il progresso economico non è per nulla scontato e che il periodo di pace e di conquiste democratiche può venire meno anche in Europa. Ci potremmo ritrovare da un giorno all’altro ad affrontare nuove guerre, se non si pone un argine al riemergere dei nazionalismi e della cultura dell’odio.
Come aveva intuito Shakespeare nell’Amleto, l’uomo virtuoso è chiamato a rimettere in sesto il corso di quel “tempo scardinato” nel quale gli è capitato di vivere.
Ogni persona può fare la differenza di fronte a tanti fenomeni degenerativi che, come accaduto nel passato, raccolgono grande consenso e ai quali molti si abituano con un sentimento di impotenza e di rassegnazione.
Ogni essere umano può essere l’artefice di un nuovo inizio, come quel fruttivendolo di Praga che decise di rimuovere dal suo negozio il cartello del conformismo: la sua azione fu così il primo passo per spingere la storia in una nuova direzione e il suo esempio chiamò a raccolta tanti altri uomini.
Lo scrittore e dissidente (futuro primo presidente della Cecoslovacchia) Vaclav Havel chiamò questa opportunità rigeneratrice il potere dei senza potere che si realizza quando uomini di diversa estrazione si mettono assieme per affrontare le sfide del tempo, riconoscendo che ognuno non può fare a meno degli altri perché ogni essere umano è portatore di una fragilità, di una fallibilità, di una verità parziale, di una differenza che però di volta in volta si può ricomporre nel dialogo e nell’esperienza comune.
È questo straordinario processo di autoeducazione che fa comprendere agli uomini come il vero potere non nasca dal singolo, ma dal costruire insieme, superando la convinzione che una nuova società si debba edificare attorno all’idea del nemico.
Forse mai come nel nostro tempo, gli uomini, gli Stati, le organizzazioni sovranazionali, se non vogliono precipitare nel baratro, devono collaborare per affrontare le enormi sfide che riguardano la stessa sopravvivenza del pianeta: la povertà, i cambiamenti climatici, le migrazioni, i focolai di guerra.
La cultura della chiusura, della separatezza, fino a riproporre la contrapposizione e l’odio verso l’altro, poggia sull’illusione dell’autosufficienza del singolo, come della propria nazione rispetto al mondo, e ci rende tutti in realtà molto più deboli e nemici gli uni degli altri.
Il riconoscimento della propria fragilità è l’elemento costitutivo della solidarietà e della comune umanità, fino all’esperienza più difficile nelle relazioni umane: quella del perdono.
Chi riconosce la fragilità degli esseri umani è forse l’uomo più capace di aprirsi agli altri. Egli non si preoccupa solo di non nuocere e di prendere le distanze da ciò che non funziona nella società, ma agisce venendo incontro ai bisogni degli altri e assumendosi una responsabilità:
ai violenti risponde con la non violenza;
agli xenofobi risponde con l’accoglienza;
a chi fomenta l’odio e il disprezzo risponde con l’amicizia;
a chi vuole muri risponde costruendo ponti.
Ha infatti compreso che per sconfiggere il male, bisogna anticipare il bene.
In questo modo, come è accaduto a tanti giusti nella storia, che hanno riempito uno spazio vuoto e hanno costruito piccole isole di umanità, l’uomo responsabile nel suo ambito di sovranità offre il suo contributo per raddrizzare il mondo. Il suo esempio può diventare contagioso e accendere una scintilla tra gli altri uomini.
Egli con un atto di bene richiama tutti ad agire insieme in nome della comune umanità.
Un nuovo inizio comincia con la sfida all’indifferenza.
Ci siamo purtroppo abituati all’idea che di fronte ai genocidi e alle atrocità di massa si possa soltanto essere spettatori passivi. Il filosofo Theodor W. Adorno constatava amaramente che nessuno perdeva l’appetito guardando in televisione, all’ora di cena, i devastanti bombardamenti in Vietnam. Eppure ci furono molti, in ogni parte del mondo, a scendere in piazza per manifestare, convinti che fosse possibile fermare quella guerra. Oggi, la distruzione della Siria e i crimini contro l’umanità perpetrati dall’Isis ci dicono che siamo ancora lontani da una politica internazionale di prevenzione dei genocidi. Ma tutto questo non è ineluttabile. Ogni uomo può diventare protagonista non solo nel denunciare le atrocità di massa sui social network e nella vita pubblica, ma anche nel ricordare alla politica che il comandamento “non uccidere” dovrebbe essere il primo imperativo etico nelle relazioni internazionali.
Ognuno di noi deve richiamare l’Europa a esercitare un ruolo attivo nell’interruzione dei genocidi, nel rendere efficaci i tribunali penali internazionali, nella denuncia di ogni forma di negazionismo e nella messa in opera di pratiche di conciliazione e di pacificazione di fronte alle guerre e ai conflitti.
Se questo vuoto non verrà colmato, le Giornate della memoria rischiano di trasformarsi in un esercizio di retorica e di ipocrisia. La responsabilità verso le vittime del passato si dimostra inadeguata quando viene meno la cura e la misericordia verso chi viene umiliato nel nostro tempo. Per questo motivo è uno scandalo morale che l’emergenza dei migranti non trovi una risposta comune dell’Europa per dare un futuro economico ai Paesi in cui gli esseri umani patiscono condizioni di vita inaccettabili, e che si consideri l’accoglienza come la fine della civiltà occidentale, vedendo nei migranti i nemici del nostro benessere e del nostro futuro. È inammissibile che il peso di questa responsabilità sia affidato alla volontà dei singoli Paesi, mentre la maggioranza rimane indifferente o chiude le frontiere.
Di fronte poi alla violenza terroristica e all’oscurantismo religioso non ci sono scorciatoie. La paura per un fenomeno che colpisce a caso le persone e che vuole creare divisione e contrapposizione tra uomini di religioni e di culture diverse può venire superata solo se si crea un percorso credibile che porti alla sua fine.
Ogni individuo dovrebbe interrogarsi su cosa fare per arrestare la violenza terroristica. Quando sappiamo con chiarezza quale strada percorrere, non siamo più condizionati dal ricatto del fanatismo omicida.
Il primo passo è la comprensione dell’ideologia che guida i terroristi, perché senza una battaglia culturale sui valori non è possibile sottrarre i giovani alla seduzione del fanatismo integralista. Non c’è ideologia totalitaria che non sia stata prima di tutto sconfitta sul piano delle idee. Il secondo passo, assolutamente indispensabile, è il coinvolgimento delle comunità musulmane in un movimento plurale di resistenza morale che veda assieme laici e religiosi di tutte le fedi.
Da coloro che credono nell’Islam e in qualsiasi religione deve emergere un messaggio forte e chiaro. Quando in nome di Dio si uccide e si trova la giustificazione per compiere atti barbari, come ha scritto Etty Hillesum poco prima di morire ad Auschwitz, in realtà si uccide Dio stesso. Ecco perché gli uomini, nelle circostanze peggiori, sono chiamati a difendere Dio da coloro che lo vorrebbero trasformare in un feroce criminale.
Un nuovo inizio è possibile quando si ritrova l’orgoglio di essere cittadini europei senza cadere nell’illusione che il ritorno alle piccole patrie, alle sovranità locali, al protezionismo, possa aiutarci ad affrontare le contraddizioni della globalizzazione e i limiti della costruzione europea.
Non basta più dire cosa l’Europa non ha fatto per noi, con l’atteggiamento rissoso di chi elenca soltanto le proprie rivendicazioni, ma ognuno dovrebbe cominciare a chiedersi cosa può fare per il rafforzamento della comunità europea.
L’Europa, con tutti i suoi difetti, ci ha dato la possibilità di vivere uno straordinario periodo di pace dopo il suicidio collettivo di due guerre mondiali. Il sogno europeo di grandi scrittori come Milan Kundera e Czesław Miłosz è stato l’ideale propulsivo che ha permesso la realizzazione di un miracolo inimmaginabile nei Paesi dell’Est europeo fino al 1989: la fine pacifica del sistema totalitario sovietico e la ricomposizione di una identità lacerata. L’Europa ci ha permesso di consolidare un sistema democratico che ha esteso le libertà e i diritti dei cittadini, delle donne, di tutte le minoranze: è stata per anni il motore della crescita economica, creando un benessere diffuso.
Tornare indietro non solo significherebbe rimuovere la memoria storica, ma riaprire un periodo di contrapposizioni, di rivalità che ci farebbe ripiombare negli abissi peggiori del passato e porterebbe il nostro continente a diventare irrilevante nel contesto internazionale.
È tempo di mettere in moto le nostre migliori energie per realizzare un progetto federale che crei istituzioni democratiche e sovrane, nelle quali i cittadini europei possano riconoscere la loro appartenenza e lavorare per una comunità europea che aiuti lo sviluppo dei Paesi più deboli.
Il mondo di oggi lacerato, disordinato e violento, senza punti di riferimento, ma con tante potenze che puntano a una pericolosa egemonia, ha bisogno del ruolo dell’Europa. Noi europei siamo forse in grado di offrire una cultura che può portare alla risoluzione pacifica dei conflitti. Perché, da un lato, siamo capaci di pensare il mondo, con uno sguardo universale e cosmopolita, e, dall’altro, con la nostra storia abbiamo faticosamente creato istituzioni in grado di gestire la pluralità e la differenza, i conflitti sociali, il rapporto tra Stato e religione. Da esperienze laceranti, come i totalitarismi, siamo stati capaci di sviluppare gli antidoti per evitare la reductio ad unum della società umana. L’Europa dovrebbe far sentire la propria voce in modo più autorevole per denunciare l’antisemitismo, l’omofobia e ogni altra forma di discriminazione, e promuovere l’emancipazione femminile e il rispetto dei diritti umani. Lo può fare con l’esempio delle sue istituzioni, ma anche con una politica estera coraggiosa.
Lo aveva sottolineato il filosofo Jan Patočka a Praga nel 1977 ( poco prima di morire a seguito di un duro interrogatorio della polizia politica), quando richiamava gli Stati europei ad una responsabilità morale: “Il concetto di diritti umani non consiste in altro, se non nella convinzione che anche gli Stati e la società debbano sottostare, nel loro complesso, alla supremazia del sentire morale”.
Un nuovo inizio è possibile se tutti noi siamo protagonisti di una rivoluzione nei costumi che riproponga con forza, nel dibattito pubblico e nei rapporti quotidiani tra le persone, il gusto della ricerca della verità, del dialogo, dell’ascolto, dell’empatia e della misericordia attiva.
Molti sono convinti che, di fronte al disorientamento di un futuro incerto, la chiusura in se stessi, nei muri invalicabili della propria nazione, della propria religione, della propria identità, sia la strada maestra per superare l’ansia e la paura.
Questa sorta di autodifesa del proprio ego nei confronti degli altri è un terreno fertile su cui rinasce l’odio e la contrapposizione violenta. È attraverso questi meccanismi che si ripresenta la cultura del nemico e della divisione tra noi e loro che inquina la vita democratica e alimenta i nazionalismi e i populismi.
Lo vediamo nell’assuefazione a un misero dibattito politico dove spesso prevale la logica dell’anatema e del disprezzo e dove si è perso il gusto della competenza, della ricerca della verità e di una comune assunzione di responsabilità. Lo osserviamo nei social network che sono spesso lo specchio intimo dei nostri comportamenti, come ha osservato Zigmunt Bauman, dove le persone, alla ricerca della propria autoaffermazione, si dimostrano impermeabili alle idee degli altri e cercano di volta in volta il nemico da demonizzare per affermare la sovranità assoluta del proprio ego. Lo constatiamo nella logica dei muri eretti alle frontiere per difendersi dai migranti, e che si riproducono ogni qualvolta soggetti di culture e religioni diverse considerano la contaminazione culturale un pericolo per la loro identità.
C’è però la possibilità di invertire questa tendenza.
Dobbiamo lavorare per ricostruire nella Polis una democrazia di persone che discutono con garbo e si confrontano sul piano delle idee, mettendo fine alla logica dell’insulto e delle invettive personali, con la consapevolezza che nessuno è mai portatore di una verità assoluta. Un confronto fatto con sincerità e onestà intellettuale può permettere il funzionamento creativo della democrazia.
Un diverso galateo della Politica può nascere soltanto dalla responsabilità dei media e degli individui. Troppo pochi hanno il coraggio di denunciare il linguaggio violento e rissoso, di manifestare la loro riprovazione quando un politico si esprime con disprezzo, disumanizza le persone e presenta gli avversari come nemici da abbattere. Chi usa l’oltraggio nella comunicazione politica non solo inquina la società, ma genera un clima di contrapposizione che inibisce i legami e la solidarietà tra le persone.
La forza della democrazia, al contrario, consiste prima nel poter scegliere e poi insieme costruire nella condivisione delle responsabilità.
A questa maturazione può contribuire un nuovo modo di dialogare sui social network, riconoscendo senza orgoglio autoreferenziale le ragioni degli altri e predisponendosi all’occorrenza a cambiare idea. È importante vigilare sulla verità dei fatti e non permettere che prevalga la menzogna. L’abdicazione del pensiero e della ragione fa passare sulla rete affermazioni false che si contrappongono al serio lavoro giornalistico, alla ricerca storica e scientifica, e che sono alla base di pseudo narrazioni di demagoghi e populisti, un pericoloso virus per la democrazia. I social network possono essere una grande opportunità per aprirsi al mondo, oppure diventare un via di fuga, dove si costruiscono piccole sette, ognuno in contrapposizione agli altri.
Chi scrive un tweet o un messaggio su Facebook deve essere consapevole che una parola malata, o un’accusa senza fondamento, può scatenare l’odio in una reazione a catena capace di distruggere le persone. Sul web le parole diventano subito pubbliche, e ognuno di noi diventa un opinionista o un editore di se stesso, con il rischio di amplificare velocemente giudizi sommari, semplificazioni e falsificazioni della realtà. Come diceva Kant, bisogna sapersi trattenere dall’esprimere pubblicamente la prima cosa che ci viene in mente, perché qualche volta i nostri sentimenti potrebbero non essere del tutto “innocenti”. Ecco perché ognuno ha una responsabilità personale nella rete e prima di esprimere un’opinione o far circolare un’informazione non verificata, deve riflettere sulle conseguenze delle proprie affermazioni.
La sfida più difficile è l’accettazione dell’altro nella nostra società.
L’arrivo di milioni di migranti in tutta Europa, con religioni e culture diverse dalla nostra, ha creato un clima di insicurezza e spesso la prima preoccupazione è stata quella di creare degli steccati per affermare la nostra superiorità e per imporre il nostro punto di vista.
C’è un solo modo di vincere la paura che genera mostri e provoca un clima di sospetto e di insicurezza, dove tutti diventano nemici: la perseveranza nel ricercare assieme la nostra comune umanità e la nostra capacità di pensare e di giudicare, mettendoci sempre nei panni degli altri.
Come è sempre accaduto nella storia, un percorso di simbiosi e mimesi tra civiltà diverse avviene, pure in modo non lineare, all’interno di un’esperienza comune dove si scoprono con curiosità le possibili somiglianze tra le culture e le medesime responsabilità nei confronti del mondo.
Certamente l’integrazione non può prescindere dalla condivisione dei diritti fondamentali, né si può realizzare con astratti accordi formali.
Accogliere non significa fare un passo indietro rispetto ai nostri valori.
I temi della tolleranza, del dialogo tra culture, della diversità, sono da mettere in relazione alla nostra identità e alle nostre conquiste.
La modernità intesa come diritti acquisiti dei più deboli in una società aperta; il valore universale della democrazia come opportunità per tutti e libertà di pensiero; la separazione dei poteri accompagnata da strutture sociali di controllo; la capacità di mediazione e di soluzione di problemi al più alto livello tra interessi configgenti; sono la sostanza di un’esperienza storica di cui la nuova Europa deve farsi carico, se non vuole morire schiacciata dal peso delle proprie inadempienze, sia a livello politico che sociale.
Questo nuovo inizio non è un’impresa impossibile perché ci sono tanti uomini che hanno rialzato la testa per reagire all’indifferenza, per non farsi coinvolgere dalla cultura dell’odio, resistere al terrorismo, riaffermare il valore della pluralità e dell’accoglienza, della pace e della non violenza.
Li possiamo chiamare i giusti del nostro tempo.
Sta a noi farli conoscere e seguire le loro orme, come è avvenuto tante volte nella storia.